domenica 27 luglio 2008

Maison Européenne de la Photographie

Arrivo alla Maison Européenne de la Photographie pensando di trovarla già chiusa, a causa dei poco simpatici orari parigini (più o meno tutto chiude alle 18), e rimango piacevolmente sorpreso del suo orario di apertura: fino alle 19 e 45.
Sul proprio sito (www.mep-fr-org) la MEP vanta 4 esposizioni http://www.mep-fr.org/actu_1.htm) per il periodo dal 18 giugno al 14 settembre: proprio per questo non riesco a capire come mai ne sono indicate solo tre (quella di William Klein si è dissolta o sono ubriaco?). Visto che il tempo è comunque poco mi dirigo verso quella di Annie Leibovitz, a photographer's life.

Il sottotitolo di questa mostra è fondamentale: più che un portfolio delle sue opere più famose, comunque presenti a completare il personaggio, la mostra, prima ospitata a NY, è incentrata sulla vita della fotografa, o sulla vita del fotografo in sé se si vuole, vista attraverso le sue foto.
Così il perno dell'esposizione diventa il rapporto, non apertamente amoroso e complesso, che legò Susan Sontag e Annie dal 1988 al 2004, anno della morte della Sontag. L'ultimo periodo della sua vita è raccontato con foto che rivelano grande sofferenza. A un mese di distanza seguì la morte del padre di Annie, immortalato al momento della morte in una foto meravigliosa.
Ciononostante, molte foto di famiglia, specie quelle balneari della famiglia sotto l'ombrellone, lasciano indifferenti e risultano noiose. Anche alcune istantanee della Sontag in giro per il mondo lasciano un po' indifferenti e non aggiungono granchè.
Incredibile è invece la foto scattata subito dopo il parto della Leibovitz, probabilmente dalla Leibovitz stessa (sic!): difatti non è specificato diversamente. Ho dubbi che questo sia possibile. Se così è, cara Anna-Lou, complimentoni.
Non amo affatto i ritrattoni di celebrità in stile Rolling Stone e proprio per questo ho preferito lasciargli poco spazio: ma tranquilli, i classici ci sono tutti, o quasi, patinatissimi e vacui.
Poco spazio è lasciato alle foto di giornalismo, che comunque meritano e meriterebbero più spazio.

Perciò, in sostanza, i lettori di Vogue avranno pane per i loro denti, gli altri dovranno cercare più attentamente e concentrarsi sull'essenza del fotografo in sè per restare soddisfatti.

Tralascio di parlare dettagliatamente della piccola esposizione di Eric Aupol, Clairvaux: ridicola. Foto di una prigione alternate a machi torsi maschili. Ci mettete comunque poco a vederla (sono una decina di foto) per constatare di persona.

Quindi arrivo a Sophie Elbaz e la sua mostra L'envers de soi: in una parola bella.

Degli scatti meravigliosi in bianco e nero illustrano con grande forza intimista (come la Elbaz si descrive) i conflitti della ex-Yugoslavia che distrussero Sarajevo. Rimango ammutolito davanti a foto di grandissimo spessore.

Altri bianchi e neri più inusuali illustrano una scuola di ballo cubana, frammento di un mondo disilluso ma colorato, di un popolo massacrato ma resistente. Certamente vacillante. Di cartapesta. La scelta del bianco e nero per far risaltare la mancanza del colore supposto non è casuale, grazie alla maestria della Elbaz le foto sono impregnate del malessere dell'isola.
Date a questa mostra il tempo che si merita, e non fate come me che, avendo perso tempo a capire i legami di parentela tra la Sontag e la figlia della Leibovitz, devo andar via perchè il museo chiude.

Giovanni

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